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Poste Italiane: da servizio pubblico a profitto privato, il peso sui cittadini e sui lavoratori.

 

La trasformazione di Poste Italiane negli ultimi trent'anni rappresenta uno dei casi più emblematici di come un servizio pubblico essenziale possa essere gradualmente sottratto alla collettività. Un processo che ha visto l'azienda passare da amministrazione statale, deputata a garantire un servizio universale, a società per azioni orientata principalmente al profitto, dove gli interessi degli azionisti prevalgono sistematicamente su quelli dei cittadini e dei lavoratori.

Il percorso di privatizzazione inizia negli anni '90, quando lo Stato italiano, allineandosi alle politiche neoliberiste dell'epoca, avvia un massiccio programma di dismissioni del patrimonio pubblico. La trasformazione di Poste in Ente Pubblico Economico prima e in SpA nel 1998 poi, è stata presentata come necessaria per migliorare l'efficienza del servizio.
La realtà ha mostrato un quadro ben diverso: ogni passaggio è stato accompagnato da drastici tagli al personale, chiusure di uffici, razionalizzazioni che hanno colpito soprattutto le aree meno redditizie del paese.

L'azienda, con la complicità dei sindacati firmatutto, ha trasformato ogni "riorganizzazione" in una mannaia sui diritti dei lavoratori e sul servizio pubblico. Dietro l'elegante facciata dei grattacieli direzionali e le patinate campagne pubblicitarie, si nasconde una realtà fatta di uffici postali fatiscenti, portalettere spremuti all'inverosimile, sportellisti trasformati in venditori a provvigione

Nel 2015, con la vendita del 40% delle azioni sul mercato, la privatizzazione entra nel vivo. Le conseguenze sono immediate: ulteriore riduzione del personale, precarizzazione del lavoro, deterioramento delle condizioni lavorative. I manager si auto-assegnano bonus milionari mentre i lavoratori vengono deportati a centinaia di chilometri da casa per "esigenze di servizio". Gli stessi dirigenti che predicano sacrifici dalla comodità dei loro uffici climatizzati non hanno alcuna vergogna nel tagliare il personale mentre incassano stipendi da capogiro.

A questa destrutturazione sistematica si è aggiunto l'uso spregiudicato dei contratti a termine, trasformati da strumento per picchi di lavoro a sistema permanente di gestione del personale. Migliaia di lavoratori precari vengono assunti e licenziati ciclicamente, costretti a vivere nell'incertezza, usati come valvola di sfogo per coprire le carenze di organico create dai tagli. Una forza lavoro usa e getta, ricattabile e sottopagata, che l'azienda sfrutta fino all'ultimo giorno di contratto per poi scaricarla senza scrupoli, in attesa della prossima tornata di assunzioni temporanee. Un sistema perverso che crea precarietà esistenziale e divide i lavoratori, mentre l'azienda risparmia sui costi del personale e mantiene alta la pressione su chi ha la fortuna di avere un contratto stabile.

Il recente contratto firmato dai sindacati concertativi ne è la dimostrazione più evidente: aumenti salariali inadeguati rispetto all'inflazione, incremento dell'orario di lavoro per alcuni settori, riduzione delle tutele per malattia, smonetizzazione delle festività. Tutto mentre l'azienda registra utili milionari e distribuisce dividendi da capogiro ai suoi azionisti.

I sindacati concertativi, veri e propri complici in questa rapina, hanno barattato la difesa dei lavoratori con poltrone negli "organismi bilaterali" e aumenti delle trattenute sindacali. La loro "opposizione" alla privatizzazione è una farsa che dura lo spazio di un comunicato stampa, prima di tornare docilmente al tavolo della concertazione.

La razionalizzazione della rete degli uffici postali e del servizio di recapito ha colpito duramente soprattutto le aree periferiche e montane, gli anziani, le fasce più deboli della popolazione. Il servizio universale, obbligo di legge che scadrà nel 2026, viene progressivamente svuotato di significato. La divisione tra servizi redditizi (come il settore pacchi) e "improduttivi" (come la posta tradizionale) prefigura ulteriori cessioni e dismissioni

La verità è che il progetto di privatizzazione non mira all'efficienza del servizioma allo smembramento di un'azienda pubblica per consegnarne i pezzi più redditizi agli appetiti privati. Gli uffici postali nei piccoli comuni, il recapito nelle zone periferiche, il servizio universale: tutto ciò che non produce profitti immediati viene considerato un peso da eliminare.

La recente decisione del governo di procedere con una nuova tranche di privatizzazione rende ancora più urgente una risposta forte e unitaria. Il sindacalismo di base, da sempre opposto a questo processo di smantellamento, continua a proporre alternative concrete: difesa e rilancio del servizio pubblico, reinternalizzazione dei servizi, stabilizzazione dei precari, riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario, aumenti salariali adeguati al costo della vita.

La privatizzazione di Poste Italiane non è solo una questione sindacale o lavorativa: è il furto di un patrimonio collettivo, costruito in decenni di servizio pubblico e finanziato con le tasse dei cittadini. È la sottrazione di un servizio essenziale che dovrebbe garantire coesione sociale e territoriale. È l'ennesimo esempio di come il profitto privato venga anteposto al bene comune.

La battaglia per la difesa di Poste come servizio pubblico richiede il risveglio delle coscienze, la partecipazione attiva dei lavoratori, il sostegno dei cittadini.

Perché quello che sta accadendo, dietro la retorica dell'efficienza e della modernizzazione, ha un intento ed un'azione precisa:

QUESTA È UNA RAPINA.

Informazioni

Cobas poste è un organismo sindacale di base composto esclusivamente da Lavoratrici e Lavoratori che attraverso l'autorganizzazione mettono in atto la contrarietà alle politiche aziendali tese all'esclusivo profitto per manager ed azionisti. Rivendicando il servizio offerto come bene necessario per la collettività esercitano una molteplicità di azioni ad autosalvaguardia dell'operato e della integrità di chi lavora ogni giorno.  

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